Orofino e il viaggio dentro gli “Ideali”, in compagnia di 9 attori e 37 poeti. Emozioni, riflessioni, immaginari alternativi

05/01/2021

Disponibile da novembre sul canale YouTube del nostro teatro, IDEALI. Antologia di poesie del Novecento italiano sta ottenendo un buon successo di pubblico (e visualizzazioni).
Sul progetto, nato con un certo senso didattico ma aperto a tutto il pubblico (in particolare, a quello degli appassionati), abbiamo fatto una lunga chiacchierata con il regista Nicola Alberto Orofino. Che ci ha raccontato come è nato il percorso, dentro la poesia italiana degli ultimi 100 anni, in “ideale” compagnia di 9 attori e 37 autori. Un viaggio in cui gli attori danno voce alla natura che i poeti dell’ultimo scorso hanno scelto di cantare.

65 componimenti, 37 poeti del Novecento, 9 attori… Come è nata la scelta? O meglio la tripla scelta: quella dei 37 autori, quella delle loro poesie. E quella di assegnarle ai colleghi attori.
IDEALI è un progetto di lettura e interpretazione della poesia italiana del novecento che mette assieme poco meno di 2 ore di video (distribuiti in nove puntate), e nove attori. C’era quindi spazio per un lavoro di approfondimento e di ricerca piuttosto ampio, per un percorso che desse contezza della enorme varietà di stili e poetiche, di fantasie e necessità che sono il tratto peculiare della poesia del secolo scorso. Per questa ragione abbiamo pensato assieme al direttore Laura Sicignano all’ecologia e all’ambiente come tematiche che facessero da filo conduttore, questioni vicine alla sensibilità contemporanea, emerse sempre più nel dibattito pubblico e artistico degli ultimi 15 anni ma che vengono da lontano.  E questo vale a maggior ragione nella poesia in cui concetti come la precarietà dell’esistenza, l’indefinibilità del tempo e dello spazio in cui si compie la vicenda umana, la natura come specchio dell’animo inquieto dell’uomo, lasciano via via spazio a temi più vicini ad una sensibilità ecologista.

A quale segmento di pubblico hai pensato, nell’ideazione di questo progetto sulla poesia italiana del Novecento?
È chiaro che la destinazione didattica è quella più immediata, anche se in verità non c’ho mai badato molto. Ho certamente pensato a tutti gli appassionati, ma soprattutto a come appassionare alla poesia. Per queste ragioni ho preferito non caricare la lettura di nessuna sovrastruttura interpretativa o peggio ancora registica. Sul nudo palco del Verga i riflettori (in senso metaforico e concreto!) sono puntati sul corpo dell’attore o dell’attrice che legge un testo poetico. Così, semplicemente e concretamente. Il teatro del resto è il luogo naturale in cui corpo e letteratura si incontrano per smuovere emozioni, riflessioni, immaginari alternativi. Raccontare nel modo più naturale e reale questo incontro mi sembrava il modo più giusto per lasciare allo spettatore la libertà di attribuire significati e sviluppare immaginari personali.

La parola poetica, il dire ispirato, che valore e che significato hanno, per un giovane autore e regista come te?
Quando cominciai la scuola per attori del Piccolo Teatro di Milano, nell’ormai lontano 1999 (non sono più, ahimè, così giovane!), mi stupii come la primissima cosa che ti facessero recitare fosse un testo teatrale in versi. Avrei immaginato che fosse materia da trattare all’ultimo anno di studio, e non addirittura come primo studio. La ragione era del tutto tecnica: il testo poetico permette meglio della prosa di lavorare sul ritmo, e sul potenziale immaginario delle parole, che nel percorso formativo di un attore sono bagagli tecnici ed emotivi di primaria importanza. Sarà anche per questo che nel mio percorso attoriale e poi registico mi sono sempre tanto concentrato più che sull’aspetto formale “della parola poetica” alle ragioni del raccontare attraverso la poesia, più che alla retorica del “dire ispirato” alla concreta potenzialità emotiva ed evocativa che può attraverso il corpo dell’attore, raggiungere in potenza l’intera umanità. La poesia non necessariamente è genere astratto e formale. Non è una questione di suoni che la retorica e una certa tradizione c’hanno consegnato chiamandoli “poetici”. L’incontro con la recitazione fornisce alla poesia una verità che in certi casi è più reale della prosa. La ricerca di quella veridicità mi sembra possa essere definito uno degli obiettivi del mio percorso artistico.

“Temi come la precarietà dell’esistenza, l’indefinibilità del tempo e dello spazio in cui si compie la vicenda umana, la natura come specchio dell’animo inquieto dell’uomo, lasciano via via spazio a temi più vicini ad una sensibilità ecologista”, scrivi nelle note dello spettacolo. Come si è evoluta, negli anni, tale sensibilità ecologista?
IDEALI parte da D’Annunzio, attraversa tutto il Novecento per poi arrivare ad autori e poesie di oggi. La nona puntata si conclude con una poesia che Franco Arminio, del 2017. È un percorso che cerca di rintracciare i possibili antenati di quella che a partire dagli anni ’80 in America e poi negli anni ’90 in Europa, diventerà eco-poesia. Non è un percorso diretto, ma ricco di deviazioni. E non poteva che essere così data la complessità e la varietà del panorama poetico italiano del 900. La politica, la guerra, l’amore, la donna, la famiglia sono temi che entrano ed escono di continuo nel discorso poetico. E spesso l’ambiente non è altro che lo spazio concreto o evocativo del racconto dell’esistenza umana. Ma sempre più l’ambiente da semplice “ambientazione” quasi scenografica, diventa la protagonista del racconto. Da una poesia antropocentrica si passa ad una poesia biocentrica. Il poeta si ritaglia il ruolo di portavoce dell’emergenza ambientale.

IDEALI, come titolo: come vanno interpretati? Sono cioè quelli che, secondo la vulgata classica e ripetitiva, mancano sempre alle giovani generazioni o sono il perfetto modello verso cui tendere l’azione quotidiana?
IDEALI mi sembrava il titolo più giusto perché racconta benissimo il rapporto che c’è fra il teatro e il testo poetico. Come la poesia, il teatro si adopera per disegnare un mondo più giusto ed equo, una umanità in cui il rispetto tra i membri di una comunità sia il faro per comportamenti e azioni pieni di senso. Attenzione però a possibili riferimenti moralistici. Gli IDEALI per me hanno un valore più che altro politico, di ragionamento sulla collettività.

Serve poco per fare teatro, sembra dirci il tuo spettacolo: una scena, un attore (voce e corpo), un testo. Ma senza pubblico come risulta la messa in scena? 
Per fare teatro serve sempre tantissimo impegno, rigore, disciplina, tecnica, spirito di sacrificio. Serve coinvolgimento emotivo, serve mettersi in discussione sempre, serve un importante lavoro su se stessi (non solo per gli attori). Serve essere preparati tecnicamente e ad un regista serve avere una conoscenza profonda delle dinamiche del proprio gruppo di lavoro, degli strumenti tecnici della recitazione e del movimento. Tutto questo è l’indispensabile. Del resto si può fare anche a meno, e gli artisti della mia generazione, con sempre meno soldi per le produzioni, lo sanno bene. Ma perché si possa parlare di teatro non si può prescindere dalla presenza di un pubblico. Il teatro (di prosa o di danza o di lirica) è l’unica forma d’arte in cui esiste una magica contemporaneità tra la fruizione e la composizione del prodotto artistico. Questa peculiarità per me non è negoziabile, pena lo snaturamento del teatro stesso.

Quali sono, secondo lei, gli strumenti – digitali e tecnologici – che possono servire al teatro e a chi fa teatro per tenere comunque il sipario aperto? Per non smettere di recitare e far sentire la propria voce?
Il digitale, il cosiddetto streaming, sono senz’altro indispensabili in un momento di crisi e di difficoltà della categoria come quella che stiamo vivendo in questi mesi. Dietro gli uomini che fanno spettacolo dal vivo ci sono delle vite concrete fatti di bisogni materiali. Gli artisti dello spettacolo dal vivo sono lavoratori. E in una emergenza che non permette ai teatri di aprire il sipario, ogni soluzione che permette alla categoria di esprimersi, è sacrosanta e legittima.  Non può però secondo me diventare una regola. Come dicevo prima, la presenza dal vivo del pubblico, mi sembra un fattore non negoziabile.

Ha qualcosa da suggerire a chi si è preso la responsabilità di chiudere cinema, teatri, musei… riducendo, per causa maggiore, i principali centri dell’offerta culturale?
Sulla chiusura dei luoghi della cultura è già stato detto tanto. Nessun suggerimento, piuttosto una riflessione sulla nostra categoria. La pandemia ha consegnato a me e ai miei colleghi un obiettivo alto, oserei dire clamoroso: la ricerca di una identità lavorativa in grado di farci sentire (valere) in modo chiaro e netto; una identità per essere più forti assieme. E la gente del teatro, ci sta provando, ce la sta mettendo tutta, bisogna riconoscercelo. I lavoratori dello spettacolo non sono mai stati così uniti, si dichiara. Ad essere onesti sarebbe meglio dire “mai così impegnati nel tentativo di riconoscersi come soci di un bene comune”, “mai così impegnati nel tentativo di capire se esistiamo come insieme (assieme)”. Alla ricerca disperata di una identità. Disperata, si. Perché se non c’hai pensato per tempo, come è colpevolmente successo a noi, il tentativo identitario è difficile nel tempo del pericolo. Non impossibile, ma difficile. Perché in guerra tutto si mischia, le rivendicazioni della normalità (es. prove pagate, giusta retribuzione, lotta al clientelarismo, distribuzione non equa delle risorse…) si confondono con le rivendicazioni dell’emergenza (es. streaming, sussidi, rischio povertà ecc.) E la confusione genera incontri complicati e scontri rumorosi… difficili. Ma per quanto poco fiducioso, cominciare (o tentare di ricominciare) è sempre la scelta più giusta. Tentare di nuovo e meglio di prima, e già una rivoluzione. Anche se con obiettivi non definiti e motivazioni discordanti. Riconoscersi nell’assieme e riconoscere gli altri come soci di quell’assieme sono le uniche imprese (belliche forse) per cui vale la pena ancora continuare il mestiere del teatro.