Quando nel 1949 Morte di un commesso viaggiatore debuttò a Broadway, l’America viveva l’ottimismo del dopoguerra: ricostruzione, boom economico, fiducia nell’ascesa sociale. Arthur Miller colse subito l’altro volto di quel mito: la brutalità nascosta dietro il successo, la solitudine di chi misura il proprio valore sulla competizione, la disperazione di chi non può fallire. Oggi l’opera non è una reliquia, ma uno specchio del presente: in un mondo in cui il capitalismo è divenuto stile di vita interiore, la vicenda di Willy Loman non riguarda più solo l’America, ma l’intera umanità globalizzata.
La regia di Carlo Sciaccaluga si muove dentro questo orizzonte: è uno scavo doloroso nel nostro presente. Il Willy Loman di Luca Lazzareschi è un nostro contemporaneo, l’uomo che cerca ancora, ostinatamente, di esistere in un mondo che non conosce più il valore dell’errore, della lentezza, della fragilità. Il grido di allarme di Miller, inascoltato per oltre settant’anni, oggi è diventato regola e sistema. Eppure, dentro questo paesaggio fratturato, resta una traccia: non una morale, ma un legame, un amore che resiste, uno sguardo che cerca l’altro anche nel fallimento.

